Pier Jacopo Martello e le sue commedie «per letterati» (1957)

Pier Jacopo Martello e le sue commedie «per letterati», «La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1957, poi in W. Binni L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1933 (19843).

PIER JACOPO MARTELLO E LE SUE COMMEDIE «PER LETTERATI»

Molto notevole nella storia del teatro comico arcadico è quella lettera al Recanati che il Martello scrisse nel 1717[1] in risposta alle sconsolate considerazioni del nobile veneziano sul mancato successo della Scolastica ariostesca rappresentata dal Riccoboni a Venezia e caduta per l’ostilità del pubblico, malgrado l’appoggio di duecento colti patrizi intervenuti ad incoraggiare quel tentativo di riportare sulle scene una commedia dotta e di opporla alla commedia dell’arte, al melodramma, alla commedia italo-spagnola.

Il Recanati andava arzigogolando sulle possibili ragioni di quell’insuccesso attribuendolo soprattutto al verso sdrucciolo noioso e faticoso. Ma il Martello nella sua risposta mostrava di capire che si trattava di un dissenso piú profondo del pubblico popolare ancora legato al piacere delle commedie dell’arte e delle maschere di cui egli stesso, in una vivacissima pagina riportata e sottolineata giustamente dal Croce[2], avvertiva e condivideva la forza d’incanto. E coraggiosamente ammetteva l’impossibilità pratica di procurare un vero pubblico alle commedie dotte finché (ed era qui l’aspetto utopistico del suo pensiero di riformatore arcadico, tanto piú rigido, da questo punto di vista, di quello di un Muratori che piú fiduciosamente auspicava un teatro colto, ma capace di parlare al popolo) il numero dei letterati non fosse tanto cresciuto da riempire un teatro e da stimolare gli attori a recitare con impegno e adeguata preparazione letteraria commedie come quelle ariostesche. Tanto valeva dunque non preoccuparsi del grande pubblico, e, lasciando da parte i tentativi di conciliare letterarietà e gusto popolare (su cui tanto si affannavano i riformatori arcadici del teatro con cosí scarsi risultati fuori dei teatrini di collegio e di palazzo), puntare decisamente su commedie «per letterati», fatte per essere lette, costruite in una dimensione particolare che, non escludendo la futura possibilità di una rappresentazione colta, si adattassero comunque ad un recupero privato della loro speciale comicità.

Egli sa che il pubblico dei teatri non accetterebbe le sue commedie letterarie e che i comici di mestiere non farebbero neppure il tentativo di studiarle, come dice anche nella prefazione all’Euripide lacerato[3], dove precisa di aver «animato» lo stesso Euripide lacerato e Che bei pazzi! «con tale azione che ai soli letterati appartiene, i quali, se tanti fossero che componessero un popolo, gli avari istrioni dal numeroso concorso arricchendosi, ben volentieri a memoria questi due drammi porrebbersi: e nel corso delle loro recite, piú e piú volte rappresentarli non sdegnerebbero. Ma piccolo essendo il numero de’ nostri poeti, sgombri e leggeri di borsa, si appaghino questi del sedersi nei loro gabinetti alle nostre due favole, rappresentandosele mercé della fantasia, a sé medesimi, con forse maggior piacere di quello, che da imperiti attori, i quali qua un verso storpiano là mozzano un sentimento, ascoltandole, goderebbero».

Azione per letterati che si richiama naturalmente ad Aristofane, non tanto per bisogno di autorizzazione classica[4], quanto per far meglio risaltare nell’elogio del comico ateniese (di cui non si avverte poi l’impegno ideologico e politico che sorregge la sua satira contro Socrate ed Euripide) l’efficacia di una commedia per letterati in cui si introducono «le critiche non solamente de’ costumi, ma de’ poemi e degli stili: satira, che a’ di nostri per me s’è promossa, siccome quella che tendendo unicamente ad emendare gl’ingegni, lascia in un canto e nella loro pace i costumi»[5].

Non si calcoli tanto la prudenza di questa esclusione dei costumi[6] (che non sarebbe certo piaciuta al Muratori), ma si accentui invece lo schietto interesse del Martello per questa commedia per letterati, la sua decisa scelta che corrisponde poi alla vera forza del suo gusto parodistico e satirico e alla sua singolare capacità di produrre effetti comici con la mimesi abilissima e la dilatazione parodistica, coerente e misurata, di tipici moduli di linguaggio poetico e di varie maniere poetiche, e, attraverso queste, di mentalità e di atteggiamenti culturali[7].

Si lasci da parte l’Euripide lacerato, curioso componimento lunghissimo e piuttosto disordinato, intorno ai vaneggiamenti amorosi di un Euripide arcadico tra grotte e boschi (e al centro c’è una discussione ed esposizione di tragedie e commedie con l’esempio di un singolare testo arcadico-classico, il Fiore d’Agatone), e si calcolino come esercizi meno impegnativi le due brevi «satiriche»[8] Il piato dell’H e La rima vendicata. La prima di queste vuole «animare» una questione linguistica (difesa della lettera H minacciata di esclusione dal vocabolario della Crusca) con trovate poco gustose (personaggi che rappresentano le varie lettere dell’alfabeto e che danzando e riunendosi formano parole) e, meglio, con l’abile satira del linguaggio fatto da Caronte che parla contro le pretese dell’accademia fiorentina:

Il sovran tribunal, sol che a lui piaccia, o spiaccia,

nelle, e dalle parole, lettere caccia e scaccia,

e le afflitte vocali miransi o dietro, o avanti

accresciute, o scemate per lui le consonanti:

a un suo cenno agitati per l’alte vie de’ venti

su questa voce, o quella si appiccano gli accenti.[9]

Mentre la seconda ci lascia appena una pallida caricatura del nemico della rima, il Gravina, preso in giro per le sue infelici tragedie (scritte in tre mesi «senza che alla cattedra pregiudichi», che è parodia di un verso dello stesso Gravina), e del Maffei (il «pedagogo poliglotta»), e ci interessa su di un piano culturale per la difesa arcadica della rima in nome dell’armonia[10] e per le conclusioni del buon senso del Martello e del suo arcadismo piú libero e spregiudicato:

Io non rido al litigarsi

sul rimarsi o il non rimarsi;

rido al farsene un gran caso

da chi giudica in Parnaso...

Se si muor senza esca o umore

senza rime un uom non muore

né vivrà senz’armonia

per mancar di poesia.

Gliene dà Natura a iosa

da per tutto armoniosa

sin ne’ rii, ne’ venticelli,

sin ne’ dolci e pinti augelli.

Ma dove la disposizione comica del Martello e la sua singolare felicità di parodia letteraria raggiungono la loro maggiore evidenza ed efficacia è nella commedia Che bei pazzi!, che è preceduta dalla citata lettera al Recanati, ricca di osservazioni sulle fonti del «ridicolo letterario» che accentuano, in contrasto alle risorse del giuoco mimico della commedia dell’arte, quelle del linguaggio («traslati e inusitate parole, allitterazione, equivoco etimologico, parodia ecc...» e «maledicenza» che «è lo spirito della commedia»[11]), sicché la stessa azione è in funzione di un giuoco linguistico-letterario anche se questo, in questa commedia, è insaporito gustosamente da una vena di realismo bonario, da un senso di esperienza della vita e dalla satira, senza livore, di alcuni istinti fondamentali, specie nelle donne, la cui volubilità amorosa è rappresentata fra sorriso e spregiudicatezza realistica.

Questo tema della volubilità femminile e della invincibile avidità erotica della donna è anzi il tema piú profondamente satirico, anche se naturalmente alleggerito nella fresca voce della servetta che commenta le azioni della protagonista con un gusto di vivacità briosa con cui il giuoco linguistico e letterario si intreccia efficacemente[12], mentre questo domina piú esplicito, ma abilissimo e davvero ricco di comicità, nella creazione di voci in caricatura, di mode letterarie in accordo con un certo tipo di deformazione satirica di tipi umani, quando l’azione passa dal suo motivo di sostegno (la favola della matrona di Efeso[13], la favola della vedova Sostrata che, rinchiusasi nel mausoleo del marito con l’ancella, cambia radicalmente i suoi propositi quando penetra nel mausoleo il giovane soldato Penulo) al motivo satirico indicato nel titolo Che bei pazzi!

I pazzi sono i poeti e pazza (ma sino a un certo punto) è la stessa Sostrata aspirante poetessa (satira della grande quantità delle poetesse in Arcadia e probabilmente, secondo l’affermazione crociana, satira soprattutto di Teresa Zani), contesa da diversi pretendenti, tutti poeti, sinché Penulo con l’equivoco di un madrigale petrarchesco (ma scrittogli dal cavalier Marino!) e piú per la sua prestanza fisica, convince la vedova a sceglierlo per nuovo marito, aiutato anche da Cornia, la servetta, che è un po’ la voce del buon senso, e che, alla fine della commedia, chiamerà gli inservienti dell’ospedale che sferzano generosamente i vari poeti pazzi e li rinchiudono nel manicomio.

Il motivo della favola petroniana, per quanto essenziale a reggere il giuoco letterario e a portarvi un sorriso di buon senso, di esperienza circa la fatuità delle contese letterarie e della boria letteraria di fronte a motivi piú generali e validi nella comune vita umana, è, ripeto, pur sempre limitato e subordinato al tema fondamentale della pazzia dei poeti con le loro manie, corrispondenti alle tematiche ed al linguaggio delle diverse maniere poetiche vive nella polemica arcadica. Ed è qui che il Martello, letterato sottile e ingegno vivace (capace di vivere in Arcadia, ma di vederne insieme le pedanterie, le manie, i limiti dei vari «stili»), ottiene i suoi risultati piú vivi e piacevoli.

Efficacissima la presentazione del pedante Sannione, fidenziano classicista (satira anche di Gravina e Maffei con i loro tentativi classicistici[14]), buffo nei suoi approcci con la servetta perché gli sia intermediaria presso la vedova, tutto chiuso nel suo alone di pedanteria ottusa alla vita e nel suo linguaggio comicamente latineggiante

Che vogl’io tu mi peti? In primis queroti,

che la sannionicida amabil Sostrata

le tremidule gene ed i nigerrimi

occhi, il petto peralbo e venustissimo

conceda a Sannion, che è sostratofilo.[15]

Buffissimo poi nei suoi colloqui con il proprio demone (motivo poi ripreso, con abbondanza di comicità da opera buffa, nel Socrate immaginario del Galiani), alla cui voce, rappresentata da virgolette, il pedante porge orecchio con comica gravità:

O fida mia cubiculare animula,

che qual libero vai lunato il vertice

di due tenere corna, e a cartilagini

l’ali hai formate come un vespertilio,

perché i denti mi estendi, e, peto, arridimi,

e pur la fronte in cachinnando hai torvula?

Odo le voci tue qual tintinnabulo

l’orecchio mio pulcre ed argentee allicere,

ma tu mi scusi e a me volgendo il podice,

mi posterghi, mi sperni e floccipendimi.

O maledetta torma, che interrompemi

i tuoi sermoni, e veggio ben, che mettiti,

nel venir de’ profani, al labbro il digito.

Si trasferisca il suaviloquio in crastino.[16]

E pure efficace è Lofa, il cantore eunuco di melodramma, sempre canterellante e solfeggiante, pronto ad esprimere la sua dubbia passione amorosa con versicoli e parolette cantabili:

Aure, augei, venticei, farfalle e lucciole,

pecorelle, selvette, ed acque limpide,

tutte parole, a’ cui le note adattansi

di noi cantor cosí leggiadri e facili.[17]

Caricature che si animano coerentemente nel giuoco provocato dalla servetta Cornia, che ad ognuno di questi poeti si presenta con un nome adatto alla loro convenzione letteraria. Cosí essa si presenterà come Lauretta a quel Messer Cecco, petrarchista arrabbiato, che improvvisa una serie di variazioni su quel nome sacro ai cultori del Petrarca ed esorta la fanciulla a morir presto per poterla cantare anche «in morte» come il Petrarca fece di Laura:

Messer Cecco:

Lauretta tu?

Cornia:

Sí ben.

Cecco:

Già i sospir movonsi

ver quel nome, che Amor dentro il cor scrissemi,

e il primo suon dei dolci suoi caratteri

di fuor laudando a sentir incominciasi...

... Ma, o sotto verde lauro donna giovine,

interromper convien quegli anni floridi,

perché col ben morir piú onore acquistasi:

e avrai virtú da fare un sasso piangere,

né al dir soave mai porrò silenzio,

ma canterò per ventun anni amandoti.[18]

Cosí, quando si presenterà con il nome pastorale di Clori a Mirtilo (il poeta arcade, autocaricatura di Mirtilo Dianidio, pseudonimo pastorale del Martello), questi subito si sente in dovere di «eclogheggiare»:

Il bel nome, il natale e l’esercizio

tuo pastoral di te, mia Clori, invogliami:

e come Ninfa, che per l’erma e florida

collinetta in cercar la menta, incontrasi

in famigliuola di funghi odoriferi,

scorda l’erba cercata e al frutto appigliasi

avidamente, e tutta gola e giubilo

con delicata man dal suol distaccali

e a imbandir la mensa il sen riempiene,

cosí avvenuto in pastorella e vergine,

le traccia oblio di gentil donna e vedova,

e, se tu non ricusi il puro e semplice

amor d’un pastorello, il mio cuor eccoti.

Mirtilo e Clori. Come ben s’accoppiano!

e quanto gioiran le selve arcadiche,

ombra facendo al nostro assieme assiderci,

e al cantar, alternando a suon di fistola

le delizie io di Clori e tu di Mirtilo![19]

Meno viva la caricatura del cavalier Marino che pure è al centro della commedia nella sua direzione piú decisa di satira di una situazione letteraria: egli ritorna sulla terra e trova l’Italia invasa dai petrarchisti e nelle librerie i suoi libri sostituiti da «Petrarchi e Petrarchi in grande e in piccolo»[20] e si meraviglia della derisione e del disprezzo dell’Arcadia nei suoi confronti mentre egli, per le sue poesie pastorali e per la sua musicalità, pensa di meritare di essere considerato un precursore (tema tipico del Martello sviluppato nel Comentario) e in concreto, malgrado la sua abbondanza descrittiva (ma singolarmente privata tendenziosamente degli eccessi del concettismo), nel suo contrasto con Messer Cecco, mostrerà con un madrigale petrarchesco la sua capacità di continuare il Petrarca.

Ma questo motivo (difesa del Marino e dimostrazione della sua importanza nella tradizione poetica prearcadica) risulta comicamente poco fecondo e la commedia vive soprattutto nelle vivaci (anche se a un certo punto ripetute) caricature delle varie maniere poetiche arcadiche il cui linguaggio vien dilatato parodisticamente con singoli effetti di comicità che presuppongono naturalmente (come presupponevano allora) un lettore al corrente della situazione letteraria arcadica.

Il Martello aveva anche un’attenzione al fiabesco che aveva sperimentato nella scialba favola comica A re malvagio consiglier peggiore (ricca semmai di figurine di bestiario arcadico assai eleganti ed animate), ma che soprattutto trovò un’espressione artisticamente interessante nella farsa o burattinata o bambocciata del 1717, Lo starnuto di Ercole, destinata ad un teatro di burattini[21] per quelle «dilettissime figurette»[22], per quel «popoluccio di pigmei» che qui diviene proprio il favoloso popolo dei Pigmei, alle sorgenti del Nilo, vivo in una rappresentazione aggraziata e vivace fra tenue, gustosa satira e suggestione di un ambiente esotico, brioso, elegante e miniaturistico.

Naturalmente anche in quest’opera (la migliore per compiutezza del teatro comico martelliano) non ci si attendano sviluppi e scavi di motivi profondi, perché la sua stessa impostazione di abilissimo e raffinato scherzo letterario esclude una partecipazione intensa[23] e una satira intensa quale potrebbe immaginarsi pensando ai Viaggi di Gulliver di Swift, al tema pessimistico e satirico della relatività della grandezza umana.

Il Martello dà vita ad un mondo delicato e prezioso, ironico ed estroso a cui la stessa consapevolezza della destinazione per il teatro dei burattini toglie ogni velleità di significato profondo e subordina tutto ad effetti di piacevolissimo sorriso, di grazia raffinata, che presuppongono d’altra parte il divertimento di letterati, di un pubblico colto e di gran gusto, capace di intendere un giuoco cosí sottile di misure preziose, di ritmi brevi e miniaturistici, di squisiti disegni raccorciati e minuti, dentro i quali si svolge un calcolato e gustoso rapporto di sentimenti e di motivi umani (amore, gelosia, volubilità femminile, orgoglio, frivolezza ed istinto bellicoso, fedeltà e tradimento, intrigo politico, superstizione ecc.) ridotti nelle proporzioni di un mondo fra burattinesco ed infantile, commisurati ad una statura di marionetta e ad un paesaggio minuscolo, coerentemente impicciolito.

L’autore gode di questa sua creazione bizzarra e gli elementi che altrove potrebbero diventare motivi di profonda poesia (la satira della superbia degli uomini e dei loro essenziali limiti, delle loro debolezze eterne, la libertà della fiaba) sono per lui mezzi di un raffinato divertimento di letterato sensibile ed abilissimo, che si compiace di questo mondo di piacevoli figurine, di vocine sottili, di passioni ridotte anch’esse miniaturisticamente, di fronte a cui egli opporrà la figura enorme e la voce tonante di Ercole per far vieppiú risaltare le proporzioni minuscole del mondo dei Pigmei: «Ed acciocché tutto spiri brevità ne’ nostri omicciuoli, eccovi i nomi loro, in minimi monosillabi, eccovi i versi o corti o cortamente scritti piú dell’usato. Parleranno con le zampogne, acciocché alle staturette la vocina si proporzioni. Ma Ercole empiendo di quattordici sillabe i suoi discorsi sesquipedali di vocaboli risonanti, non dovrà comparire che o con un dito, mostrando di parlare fuori di scena, o mostrarci di ragionar sulla scena coll’apparizione di tutta la testa, accompagnando con voce baritona e gigantesca lo svolgersi degli occhi, ed il serrare e lo schiudere della bocca, movimenti assai famigliari per via di ordigni ai maneggiatori de’ nostri piccoli pantomini»[24].

Ed ecco gli «omicciuoli» con i loro nomi minuscoli, esotici e fiabeschi Kam, Fam, Ban, Kon, Uy, Neh, Mud, Gruh, Has, Fruh, presentati nel primo atto in un paesaggio grazioso ed esotico (con echi di fiaba orientale e di paesaggi ariosteschi alleggeriti e resi miniaturistici):

Alla riva del mare

che tacito nasconde

la fonte alle correnti

sue dolci, e fertil’onde,

pascevam misti odori

fra l’alte selve assisi

di cilestri giacinti,

di candidi narcisi.

In questo paesaggio reso piú suggestivo nella sua piccolezza dal confronto con la grandezza di Ercole, descritta con meraviglia ed orrore da uno dei Pigmei

(Un uom, ch’uom fue creduto

[...]

ma alle sole sue tempie

distratte, e smisurate,

sarian le piazze anguste

di nostr’ampia cittade;

e l’ombra sua si stende

di là, cred’io, dai segni

de’ lontani confini,

che cerchiano i tuoi regni),

e dall’intenso, iridescente giuoco di colori propri di queste selve di fiori, dall’acuta sensibilità di questi esseri agli odori del loro mondo floreale (sicché la presenza di Ercole si farà avvertire dalla nuova intensità degli odori che egli suscita stropicciandosi dormiglioso a quelle selve che son per lui un piccolissimo praticello fiorito[25]), si muovono estrosi e felici, ma pieni anch’essi di sentimenti, di desideri, di passioni, i piccoli eroi («eroini») che si esercitano alla caccia contro farfalle-aquile, lucertole-serpenti (o il calabrone che «verde e dorato» «rota in aria e rugge»), armati di «spine di pesce» e di «spine di cardo», protetti da corazze fatte dai gusci di granchi e da elmi-conchiglie[26], cavalcando uccellini variopinti. Mentre le damine caracollano spensierate e pettegole su pappagallini e il saggio re protegge questa vita variopinta ed animata in cui si presentano, in toni abilissimi di melodramma, vari tipi di «umanità pigmea»: le damine sventate e civette, i mariti gelosi, i cacciatori e guerrieri virilmente sdegnosi d’amore come Ban, gli innamorati dell’amore come Uy, desideroso di una solitudine idillica con la propria diletta[27]

(Nel gran niliaco mare

vorrei tanta isoletta,

che ad accor sol bastasse

me con la mia diletta),[28]

i tenebrosi politici, cortigiani ed intriganti, il sacerdote ciurmatore che impone, per i suoi interessi mondani, il culto idolatrico dello scimmione.

In questo mondo, in cui si congiungono piacevolmente bonaria parodia (piú che vera satira) della vita umana (e motivi piú audaci, come quello dello scellerato sacerdote che consiglierà l’avvelenamento di Ercole per mantenere il suo dominio, saranno appena sfiorati e volti in motivo di semplice arricchimento ironico) e gusto del fiabesco, interviene avventurosamente Ercole.

Le proporzioni perfette di questo mondo sono sconvolte dalla sua presenza e l’idillio cederà ad un curioso ribollire di passioni e di istinti sottilmente legato ad una tenue azione (la cui presenza il Goldoni sottolineava con ammirazione): i guerrieri vorranno affrontare il gigante, i politici escogiteranno i mezzi di sbarazzarsene o di farsene un alleato contro i loro avversari (le gru), le damine, verso le quali il gigante dimostra una chiara simpatia, copriranno il desiderio, che le combatte con quanto ha di assurdo e di affascinante, sotto il pretesto del patriottismo e faranno a gara per sacrificarsi a lui per salvare la patria. Una di loro, Fruh, verrà afferrata, mentre gli volteggia vicino, dal pugno di Ercole e si scatenerà cosí l’invidia delle altre damine e la gelosia del marito Has e quella degli altri mariti e fidanzati.

Si crederà allora di sfruttare la gelosia di Has e di avvelenare il gigante, mentre altri contrastano questo disegno ingeneroso. Finché Ercole con un poderoso starnuto manderà all’aria i Pigmei che lo circondano e imporrà loro di abbandonare il culto dello scimmione per quello di Giove.

Tenue azione, il cui ritmo generale è efficace, ma meno sicuro di quello delle singole scenette (e una maggiore difficoltà si avverte nell’ultimo atto, nel movimento dell’intrigo ai danni di Ercole) in cui il Martello ottiene risultati cosí misurati e convincenti. E si rileggano soprattutto le scene in cui il geloso Has parla con la moglie Fruh tenuta prigioniera dal pugno di Ercole. Tutto è risolto in agile, mossa miniatura di melodramma sorridente, con una finezza ed una abilità che nessuno dei commediografi eruditi d’Arcadia aveva neppure sfiorato. Prima il felice racconto della scena in cui Fruh è afferrata da Ercole in mezzo al volteggiare variopinto delle damine a cavallo di uccelli e pappagalli, poi le ansie comico-patetiche di Has che cerca

una spina

d’orrido cardo ond’io

con disperati colpi

trafigga il petto mio,

e che si decide a tentare l’impossibile:

o trar l’infelice

gli vo’ dall’empie dita

o vo’ nel pugno istesso

morir colla mia vita.

Poi, nella prima scena del IV atto, le sue smanie di geloso quando Fruh, fra inquieta e compiaciuta, gli narra come sia fastidiosa la vicinanza del volto del gigante, «perché troppo gli irti suoi peli trafiggono la pelle» ed egli comicamente alterato esclama:

Ma non lo dire almeno

due volte al tuo consorte!

E si noti ancora come a questo effetto di sorriso gustoso e raffinato, in cui concorrono i mezzi adoperati con tanta misura dal Martello (il gioco delle proporzioni ridotte di voci, figure, linguaggio con ariose trovate come quella della difficoltà di recezione nitida da parte degli orecchi dei pigmei della voce troppo alta e rumorosa di Ercole), contribuisca essenzialmente l’abilissima parodia di modi poetici arcadici, anch’essi adoperati a precisare il contrasto fra grande e piccolo, fra serio e comico, e a portare un’intima deformazione ironica negli eccessi del patetismo melodrammatico o del grandioso pindaresco guidiano o dell’elegiaco petrarchistico: cosí i versi che riecheggiano versi specialmente del Guidi, nella descrizione del gigante

(Tant’aria a noi vicino

l’erto gigante ingombra...),[29]

o quelli in cui Fruh si lamenta della stretta troppo vigorosa della mano di Ercole: «Oimè il dosso! Oimè il fianco!», che richiamano un celebre verso petrarchesco e le sue numerose imitazioni arcadiche.

Vero e gustoso teatro per letterati insomma, insaporito da una sorridente comicità e da una coscienza critica degli stessi limiti delle maniere arcadiche.

Questa disposizione caratteristica del Martello, arcade, ma capace di rivivere parodisticamente e comicamente le condizioni letterarie del gusto arcadico, ben si fonde con il suo arguto e bonario senso vitale e dà alle sue commedie per letterati un sapore e un’esile grazia che arricchiscono in una direzione personale ed esperta il raggio complesso delle esperienze e della cura stilistica dell’epoca arcadica nel suo periodo piú maturo e congeniale alle esigenze di una società letteraria, raffinata, edonistica, ricca di consapevolezza razionalistica e di vitalità animata e fantastica.


1 Fa da prefazione alla commedia martelliana Che bei pazzi!, Opere, IV, Bologna, 1723, p. 146 ss.

2 In Poesia popolare e poesia d’arte, Bari, 1933, pp. 508-509.

3 Opere, Bologna, 1729, VII, pp. 245-246.

4 Il Martello ebbe venerazione per i classici greci e latini (e in questa stessa commedia Euripide lacerato vi sono passi che costituiscono interessanti documenti del classicismo arcadico), ma non mancò mai di dichiarare, con i suoi modi briosi e coloriti, la propria indipendenza da ogni fanatismo classicistico, dalla pretesa che i classici fossero non solo insuperabili, ma irraggiungibili: «A me basta insomma, non potersi a temerità attribuire l’essersi tentato per un’anima ragionevole vestita di corpo, quel tanto che altre anime nulla meno e nulla piú ragionevoli, di corpo greco e latino vestite, tentarono, sicché la natura umana in me corredata di occhi, di orecchi, di naso, di bocca e di braccia, e di tutt’altro da capo a pie’, quantunque con barba, rispetto a’ greci, men lunga, non potesse disperare di raggiunger coloro, che di somiglianti arnesi forniti, mi precedettero» (introduzione al IV vol. delle Opere, Bologna, 1723, pp. 6-7).

5 Opere cit., VII, pp. 248-249.

6 Anche nella prefazione al Secretario cliternate, il Martello precisa l’indirizzo della sua satira: «Noi dai costumi alienandola, abbiamo voluto accostarla ai soli errori degli intelletti nella materia letteraria, ecc...».

7 Ha ben precisato questa disposizione fondamentale in tutta l’opera del Martello F. Croce, in una nota de «La Rassegna della letteratura italiana», 1953, p. 137 ss., opponendosi giustamente ad una valutazione, in chiave di profondità ed espansione sentimentale, delle poesie dell’arcade bolognese da parte di G. Spagnoletti (Sul Canzoniere del Martello, «Paragone», n. 34, ottobre 1952).

8 Il Martello si preoccupò di dare esempi diversi di teatro comico con nomi e modi diversi: satiriche, commedie, farse ecc.

9 Opere cit., V, p. 42.

10 La rima è difesa come potente mezzo mnemonico («perché meglio in uom si imprima / verità vuol dirsi in rima», che è argomento anche di Voltaire), ma soprattutto perché è figlia di armonia e perché, imponendo indugio e ripensamento al poeta, a volte divien causa di imprevista bellezza: «Non è senza compenso piccola ritrosia; / mentre a persuaderti, fermandomi per via, / colgo caduta a caso difficile a vederla, / per chi ratto trapasse, gemma, conchiglia, o perla, / che avvertir mi fa spesso, coll’arrestarmi alquanto / talché di non previste bellezze orna il mio canto» (ivi, p. 207).

11 Opere cit., VI, p. 148.

12 La servetta Cornia cosí commenta la conversione della padrona, vedova, al nuovo matrimonio:

Gode ogni donna in maritarsi, e il giubilo

nasce dalla speranza d’esser vedova,

per poi rimaritarsi, e sopravvivere... (p. 245).

13 La favola della matrona di Efeso ebbe fortuna nell’Arcadia bolognese e il Manfredi ne trasse una novella lineare e, per quanto lo permetteva il soggetto, castigata ed elegante.

14 Anche il Femia sentenziato, cosí poco incisivo da un punto di vista di comicità, si regge soprattutto sul giuoco linguistico, sull’uso ironico e parodistico dell’endecasillabo e del linguaggio classicistico in cui il Martello fa la satira del Maffei, offrendo insieme, com’è noto, moduli di linguaggio che furon presenti al Parini del Giorno.

15 Opere cit., IV, p. 177.

16 IV, pp. 258-259.

17 IV, p. 213.

18 IV, p. 209.

19 IV, pp. 211-212.

20 IV, p. 181.

21 Il Goldoni narra nei suol Mémoires (Opere, ed. Ortolani, Milano, I, pp. 77-78) come nel castello di Vipack nel 1726 egli abbia diretto la rappresentazione dello Starnuto di Ercole con burattini di legno e, dopo averne dato un sunto e un giudizio favorevole («Il y a un plan, une marche, une intrigue, une catastrophe, une péripétie; le style est bon et bien suivi; les pensées, les sentiments, tout est proportionné à la taille des personnages; les vers même sont courts, tout annonce les Pigmées»), si vanta di essere stato probabilmente l’unico che abbia effettivamente rappresentato la bambocciata e se ne rallegra, visto il buon esito della recita.

22 E in questo amore per lo spettacolo dei burattini, espresso cosí cordialmente nella prefazione alla farsa, si rivela ancora un lato dell’atteggiamento poco pedantesco e vitale dell’arcade bolognese (vedi prefazione allo Starnuto di Ercole).

23 L’Apollonio (Storia del teatro italiano, Firenze, 1938-1950, II, p. 364) trova che in questa «bizzarra esplorazione» manca al Martello «di sentirsi presente in persona propria». Ma il limite maggiore in tal senso è la stessa mancanza di una vera profondità dell’animo satirico del Martello che anche quando tocca motivi importanti di satira li volge ad elementi sorridenti di un giuoco estroso e calcolato: che è poi l’incanto di questa deliziosa bambocciata.

24 V, p. 254.

25 V, p. 258.

26 Gustosamente ornati: «a cui fiorian le creste-bianche, purpuree e gialle / o a piú color dipinte / l’ali delle farfalle».

27 Riflesso ed abile, amabile caricatura di un luogo comune arcadico espresso, ad es., con tanta efficacia in una canzonetta del Forteguerri (I pesci di vivagno in Rime degli Arcadi, II, p. 322).

28 IV, p. 263.

29 V, p. 268.